Nelle mie tante interviste ad alpinisti, le chiacchierate al di là della Manica hanno avuto un ruolo speciale. L’incontro con John Hunt a Henley-on-Thames (1983) mi ha aiutato per decenni a scrivere dell’Everest e della Seconda Guerra Mondiale in Abruzzo. Poi ci sono stati gli incontri con Hamish McInnes, Chris Bonington, Ron Fawcett, Stephen Venables e Kenton Cool. Intervistare Doug Scott a Torino, nella redazione di “Alp” è stato come giocare fuori casa.
Vent’anni fa, alla Royal Geographical Society, ho partecipato alla meravigliosa serata per celebrare i 50 anni della prima ascensione del Kangchenjunga, al quale dieci anni dopo ho dedicato un libro (“Il gigante sconosciuto”, pubblicato da Corbaccio). Ventiquattr’ore dopo la serata alla RGS ho avuto una splendida intervista con George Band. Ecco il mio racconto per il numero di “Alp” dedicato agli 8000.
Sulla vetta del Kanghchenjunga, terza montagna della Terra, i primi alpinisti hanno trovato un elisir di lunga vita. Questa impressione, lo scorso 7 giugno, era diffusa nel pubblico che ha assistito a Londra alla rievocazione dei cinquant’anni della prima ascensione, avvenuta il 25 maggio del 1955. Organizzato dall’Alpine Club e dalla Mount Everest Foundation, l’evento si è svolto in una sede di straordinario prestigio come l’Ondaatje Theatre della Royal Geographical Society, che ha patrocinato la spedizione del 1955 e molte altre delle più importanti esplorazioni degli ultimi due secoli.
Dai muri tenevano d’occhio i presenti i ritratti di Livingstone e Stanley, del capitano Cook e di Scott, di Speke che scoprì le sorgenti del Nilo e di Lord Curzon che fu viceré a New Delhi nel momento di massima potenza dell’India britannica. Accanto a loro un ritratto di John Hunt, capo della vittoriosa spedizione del 1953 all’Everest, ricordava che l’alpinismo himalayano ha uno spazio non trascurabile nella storia e nell’album di famiglia dell’Impero.
Sul palco, a presentare la serata, è salito un personaggio mitico per il pubblico inglese (e non solo) come Sir David Attenborough, celebre autore di documentari naturalistici per la BBC. E’ stato lui, nell’agosto del 1955, a curare una trasmissione sulla prima salita del Kangch. Ha concluso un intervento di Doug Scott, mito dell’alpinismo himalayano, che ha nel suo straordinario curriculum la prima salita in stile alpino della montagna.
In mezzo, sorridenti e felici, erano i quattro attempati ragazzi che hanno vinto la terza montagna del mondo. George Band e Joe Brown, arrivati in vetta il 25 maggio 1955 (entrambe le cordate, in realtà, si sono fermate qualche metro più in basso per non violare il carattere sacro della cima) hanno oggi, rispettivamente, 76 e 74 anni. Tony Streather e Norman Hardie, che li hanno seguiti il giorno dopo, ne hanno 79 e 80.
Con loro, unico ad aver bisogno di un bastone, sedeva John Jackson, 84 anni, che compì con Tom MacKinnon e tre Sherpa il fondamentale trasporto dei carichi al Campo V, base per l’assalto finale. Le precarie condizioni di salute non hanno permesso di partecipare a John Clegg, medico della spedizione, che oggi ha 79 anni. Non sono più di questo mondo, oltre a MacKinnon, Neil Mather e il capospedizione Charles Evans, che nel 1953 raggiunse per primo, con Tom Bourdillon, la Cima Sud dell’Everest, e fu tentato di proseguire sulla cresta di neve più alta e più desiderata del mondo.
Qui una parentesi s’impone. Non è facile, per chi vive a sud della Manica, capire il ruolo dell’andar per montagne in Gran Bretagna. In Italia, come in Germania o in Francia, i Club Alpini sono degli enti di Stato o quasi. Gli anniversari delle grandi ascensioni – Annapurna, K2, Monte Bianco, Campanile Basso di Brenta, Grossglockner – vedono entrare in scena presidenti e ministri, con enti del turismo e club alpini a organizzare le cerimonie. Per il cronista straniero, di norma, farsi invitare e coccolare è facile.
Nulla del genere accade in terra d’Albione. Un secolo e mezzo dopo Leslie Stephen e John Ball, l’Alpine Club resta un’associazione privata, aperta solo agli alpinisti e solo su presentazione di altri soci. Come gli altri eventi organizzati dal Club, anche la celebrazione per il Kangch era formalmente una cerimonia privata, per la quale non è stato facile avere informazioni e prenotare un biglietto dall’Italia. Tranne i festeggiati sul palco, tutti i presenti hanno dovuto pagare.
Anche il cronista, per un posto in tribuna e l’accesso al buffet, ha dovuto sborsare 53 sterline. E’ stato ben felice di farlo, e di scoprire che gli unici altri stranieri presenti erano gli ambasciatori dell’India e del Nepal a Londra. Oltre il portone della Royal Geographical Society, i ritratti degli uomini che hanno esplorato l’Africa, l’Oceania e l’Himalaya ricordavano che quell’alpinismo così “privato” ha un ruolo importante nella storia, nella cultura, nell’immagine di sé degli inglesi.
Very British, d’altronde, è stato anche il modo in cui gli oratori hanno alternato i toni seri al più classico humour britannico. Ha iniziato Charles Clarke, ex-presidente della Mount Everest Foundation e medico di varie spedizioni Bonington, rivolgendosi a “Lords, ladies and gentlemen” e invitando “le mie figlie” a spegnere i telefoni cellulari. Poi Sir David Attenborough – un lord, per l’appunto – ha presentato sé stesso come “uno che cinquant’anni fa arrampicava maluccio e cercava di imparare a lavorare in televisione”.
Poi è stata proiettata una parte del programma sul Kangch che Attenborough ha realizzato per la BBC nel 1955. Sir David, dopo aver ammesso con un sorriso che “all’epoca si facevano dei programmi orribili”, ha preso in giro il capospedizione Charles Evans, “terrorizzato di trovarsi davanti a una telecamera”, che “non aveva la minima idea di dove guardare quando veniva inquadrato”.
Sorrisi e fragorose risate del pubblico hanno accompagnato anche le parole di Joe Brown, mito dell’arrampicata britannica. “Avevo 24 anni, ero stato solo due volte sulle Alpi, quando mi è arrivato il telegramma di Evans che mi invitava alla spedizione ho pensato a uno scherzo” ha esordito il signore delle pareti di Cloggy nel suo nasale accento del Galles.
Poi Brown ha parlato a lungo del fumo (“oggi ho smesso, allora fumavo come un turco, Band è stato straordinario a non buttarmi fuori dalla tenda”) e ha liquidato con straordinaria modestia il suo ruolo nella giornata della cima. “Qualunque altro alpinista della spedizione avrebbe superato l’ultimo passaggio” ha detto Joe. Tutti sanno, invece, che quella fessura tra il quarto e il quinto grado, salita a 8570 metri di quota con zaino e respiratore sulle spalle è stato un exploit straordinario.
Aspetti inediti della spedizione sono stati raccontati anche da Norman Hardie e Tony Streather. Il primo, neozelandese e compagno di Hillary nella sfortunata spedizione del 1954 al Baruntse e al Makalu, si è concentrato sull’isolamento e sulla dimensione sconosciuta del Kangch (“al campo base c’erano solo i tappi di champagne lasciati da Crowley e compagni nel 1905”) e sulla difficoltà e il pericolo delle due seraccate superate lungo la via di salita.
Ancora più breve è stato il racconto di Streather, che merita probabilmente il titolo di dilettante più forte nella storia dell’alpinismo himalayano. Ufficiale di carriera dell’esercito di Sua Maestà Britannica, era di stanza in Pakistan quando, nel 1950, una spedizione norvegese è arrivata per tentare il Tirich Mir. Coinvolto per dare una mano nell’organizzazione, quasi digiuno di alpinismo, ha accompagnato gli scandinavi fin sui 7700 metri della cima.
Tre anni dopo, con un ruolo analogo, Streather ha partecipato alla tragica spedizione Houston al K2, superando anche stavolta i 7600 metri. Il suo racconto della seconda salita del Kangchenjunga ha avuto toni da spensierata ascensione sulle Alpi. “La fessura di Joe sembrava dura, ho traversato qualche metro e ho trovato un pendio di neve facile”. “C’era il sole, il panorama era fantastico, siamo rimasti più di un’ora sulla cima”. Impossibile non convincersi che, oltre che uomo fortunato, Tony Streather sia stato un alpinista di gran classe.
A dare all’ascensione del 1955 il suo giusto valore storico sono stati gli interventi di Doug Scott e George Band. Il primo, nelle sue conclusioni, ha ricordato di aver trovato il Kangch nettamente più difficile dell’Everest, e che questa valutazione era condivisa da Peter Boardman, suo compagno su entrambe le montagne. “Non è solo una valutazione tecnica. Il Kangch è più esposto al monsone, anche a maggio riceve nevicate più forti, le vie del versante di Yalung sono esposte a fortissimi venti dell’Ovest”.
“La vittoria del 1953 sull’Everest ha avuto un’eco straordinaria, ma la montagna era già stata salita, su entrambi i versanti, fino a 300 metri dalla vetta. Sul Kangch, da quel versante, nessuno si era spinto oltre quota 6500 metri” ha proseguito Doug Scott. “Da quando esiste l’Homo erectus, pochi gruppi hanno avuto coraggio e capacità esplorativa come il gruppo del 1955 al Kangchenjunga” ha concluso scatenando un’ovazione.
Tra i quattro che hanno raggiunto la cima, George Band è quello che ha scritto e raccontato di più, e nella serata di Londra non ha rinunciato al suo ruolo. “Se non fossimo arrivati in cima sull’Everest avremmo fatto la figura degli scemi, il Kangch era una mountaineers’ mountain, una montagna per veri alpinisti” ha raccontato. “La seraccata iniziale non aveva nulla da invidiare a quella dell’Everest. La seconda, ripidissima, era molto simile alla parete del Lhotse che dà accesso al Colle Sud”.
In alto, invece, la terza montagna del mondo supera certamente la prima. “Conosco la cresta sommitale dell’Everest solo indirettamente, nel 1953 mi sono fermato poco prima del Colle Sud. A parte lo Hillary Step, però, è aerea ed esposta ma facile. Il crinale che porta in vetta al Kangch, invece, oltre all’esposizione ha anche le difficoltà su roccia. A me ha ricordato le grandi creste della Dent Blanche e del Nordend. Anche prima di uscire in cresta l’arrampicata non è banale”.
Certo, dopo la vittoria del 1953, Edmund Hillary, Tenzing Norgay e John Hunt sono diventati famosi in tutto il mondo. Agli uomini del 1955 una sorte del genere non è toccata. “Non invidio nessuno, noi abbiamo proseguito la nostra vita senza che il Kangch ci schiacciasse. Ho fatto altre spedizioni in Caucaso, in Karakorum e in Perù, poi ho avuto un lavoro “normale” che mi ha dato grandi soddisfazioni. Ho avuto una vita magnifica” ha raccontato George Band.
Come i suoi compagni di avventura, Band ha avuto parole di ammirazione per George Evans. “Era un neurochirurgo, partire per spedizioni così lunghe per lui era un grande sacrificio. Era colto e intelligente: è stato lui a decidere che ci saremmo fermati prima della cima per rispettare la gente del Sikkim che la considerava sacra, e a voler mantenere l’impegno anche quando è stato chiaro che saremmo saliti dal Nepal”.
“Evans era anche un alpinista straordinario. Nel 1953, senza un problema al respiratore, lui e Tom Bourdillon sarebbero potuti essere i conquistatori dell’Everest. Sul Kangch abbiamo tutti insistito perché riservasse un posto per sé nelle cordate di punta. Tecnicamente era fortissimo, e lo avrebbe meritato senz’altro” ha continuato George Band.
“Invece ha scelto di fare il capospedizione fino in fondo, e di dirigere il gruppo stando un passo dietro alla cordata di punta. Come Hunt sull’Everest, e come Chris Bonington in varie occasioni, è salito fino all’ultimo campo, ha controllato che tutto fosse a posto, poi è sceso. Non ha conquistato un ottomila, ma resta uno dei più grandi alpinisti himalayani di sempre”
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