(Sono passati nove anni, ma il fascino di Pescina e di Ignazio Silone c’è ancora. Questa è l’introduzione del mio libro Il Sentiero Silone, pubblicato nel 2015 da Ricerche & Redazioni)
Un giorno d’estate di più di un secolo fa, un ragazzo intorno ai dieci anni di età viene svegliato dai genitori prima dell’alba. Beve una tazza di caffellatte insieme alla madre Marianna, poi sale con il padre Paolo sul carro di famiglia, che è già pronto per partire verso la campagna. Quella sveglia, come tutta la giornata che segue, segna un momento importante della sua crescita.
Il ragazzo “nella luce pallida dell’alba” ammira “la mole grandiosa dei buoi”. Anche “la semplicità e rudezza degli oggetti caricati per la giornata – l’aratro, il sacco di fieno, i barili d’acqua e di vino, il canestro con il cibo – e l’improvviso, rituale eppure inaspettato, canto del gallo” gli sembrano “i segni della gravità della vita in cui sta per essere ammesso”.
Poi, con un sobbalzo dopo l’altro, il carro e il suo carico di esseri umani e di cose, di sementi e di acqua, di vita quotidiana e di sogni, scendono verso il terreno di famiglia, nella piana bonificata del Fucino. E’ un viaggio di circa otto chilometri. Il padre, assorto nei suoi pensieri, non parla. Ma questo fa piacere al ragazzo, che si sente trattato come un adulto e non come un bambino lagnoso.
All’inizio si viaggia quasi in corteo, preceduti e seguiti da altri contadini del paese diretti ai rispettivi appezzamenti. Poi, man mano che ci si inoltra nella piana, i carri, gli asini e i muli degli altri deviano verso le loro terre, e Secondino Tranquilli e suo padre si ritrovano soli.
All’improvviso il ragazzo si volta, e quello che vede lo segna per sempre. “Una scoperta inaspettata fu, voltandomi indietro, la vista del paese, dal piano in cui si eravamo inoltrati. Non lo avevo mai visto a quel modo, tutt’insieme, davanti a me e “fuori di me” con la sua valle. Era quasi irriconoscibile: un mucchio di case alla rinfusa, in una spaccatura della montagna brulla”.
Queste parole, scritte quarant’anni dopo, compaiono in Per le vie polverose e dietro le siepi. Un testo del 1950 che più tardi viene incluso, con il titolo Visita al carcere, nella raccolta Uscita di sicurezza, l’opera dello scrittore abruzzese che più si avvicina a un’autobiografia. A quel punto, anche per l’anagrafe, Secondino Tranquilli è diventato Ignazio Silone, il nome d’arte con cui si è firmato fin dalle sue prime opere.
L’immagine di Pescina vista dai campi del Fucino segna l’orizzonte del futuro scrittore, come quello di tanti altri uomini e donne nati nei borghi marsicani. “Un villaggio insomma come tanti altri; ma per chi vi nasce e cresce, il cosmo. L’intera storia universale vi si svolge: nascite morti amori odii invidie lotte disperazioni” scriverà Silone in Fontamara, il suo primo romanzo, che esce nel 1930.
La prima giornata nei campi di Secondino Tranquilli-Ignazio Silone si svolge intorno al 1910. Un’epoca nella quale gli abruzzesi sono ancora in massima parte contadini. E la prima giornata trascorsa ad aiutare il padre con la zappa, le sementi e l’aratro è un rito di passaggio che tocca, ogni anno, a migliaia di ragazzi che stanno per passare dall’infanzia all’adolescenza.
Vediamola ancora una volta, quella scena. Al centro ci sono il carro agricolo e i buoi, le sementi e gli attrezzi, il pane e il vino, il padre contadino e il figlio che sembra doverne seguire le orme. Più lontani si vedono le terre bonificate del Fucino, e gli altri “cafoni” che scendono dal paese verso i campi.
Chiudono l’orizzonte le montagne della Marsica, imbiancate dalla neve d’inverno e invece brulle e pietrose in estate. Ai loro piedi, sul perimetro della conca, compaiono le case, le chiese e fortificazioni medievali dei paesi. Pescina, con i suoi campanili e la sua torre, e poi Luco, Ortucchio, Collarmele, Trasacco, la lontana Avezzano e l’orgogliosa Celano, coronata da un castello turrito. Sembra una scena fuori dal tempo, immutabile. Non è affatto così.
Mezzo secolo prima di quella mattina d’estate, dopo la fine del Regno di Napoli di cui ha fatto parte fino dal Medioevo, l’Abruzzo entra a far parte del neonato Regno d’Italia, voluto da Garibaldi e Cavour. Molte battaglie del 1860-‘61 si combattono lontano da qui, da Calatafimi a Palermo e da Castelfidardo al Volturno. Altre volte il cannone tuona più vicino, negli assedi di Civitella del Tronto e Gaeta. Nelle due fortezze borboniche, anche i soldati provenienti dalla Marsica danno il loro contributo di sangue.
Dopo la proclamazione del regno di Vittorio Emanuele II, al posto dei funzionari e dei poliziotti borbonici, arrivano sulle sponde del Fucino insegnanti, topografi e impiegati “piemontesi”, che si esprimono in una lingua incomprensibile ai più.
Per dieci anni, fino alla Breccia di Porta Pia del 1870, sui monti dall’altra parte del Fucino, dove corre il confine con lo Stato della Chiesa, carabinieri e bersaglieri con la bandiera tricolore si dedicano alacremente a inseguire, catturare e impiccare i briganti, veri o presunti che siano.
Poi, come il giovane re Franceschiello, anche il Lago Fucino se ne va. Già bonificato nel primo secolo dopo Cristo dai Romani, il terzo bacino d’Italia dopo il Lago di Garda e il Lago Maggiore scompare definitivamente nel 1876. I lavori, che durano ventiquattro anni, vengono iniziati da un consorzio di cui fa parte il principe Alessandro Torlonia, e proseguiti da quest’ultimo, dopo l’Unità d’Italia, con l’appoggio di re Vittorio Emanuele II, e dei governi che hanno sede via via a Torino, a Firenze e a Roma.
Silone tratta malissimo i “sedicenti principi Torlonia”. Come racconta nel 1930 nella prefazione a Fontamara, “arrivarono a Roma in tempo di guerra e specularono sulla guerra, poi specularono sulla pace, quindi specularono sul monopolio del sale, poi specularono sui torbidi del ’48, sulla guerra del ’59, sui Borboni del regno di Napoli e sulla loro rovina; più tardi hanno speculato sui Savoia, sulla democrazia e sulla dittatura. Così, senza togliersi i guanti, hanno guadagnato miliardi”.
La trasformazione del Fucino in buona terra coltivabile crea delle gerarchie sociali nuove, ma che restano quelle di sempre. Lo scrittore di Pescina lo descrive così per bocca di Michele Zompa, uno dei protagonisti di Fontamara.
“In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa”.
“Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra”.
“Poi vengono le guardie del principe”.
“Poi vengono i cani delle guardie del principe”.
“Poi, nulla”.
“Poi, ancora nulla”.
“Poi, ancora nulla”.
“Poi vengono i cafoni”.
“E si può dire ch’è finito”.
Nel 1888, per la terza volta in trent’anni, il mondo cambia di nuovo. Sbuffanti treni a vapore iniziano a percorrere la nuova ferrovia che unisce Roma e Tivoli con Avezzano, Sulmona, Popoli e la costa dell’Adriatico. Dopo essersi allargata verso il basso, dove le acque del Fucino sono state sostituite dai campi coltivati, la geografia degli abitanti di Pescina si trasforma verso l’alto, dove ai piedi degli aspri valloni del Sirente sorgono gli archi del Ponte della Valle, una delle opere più imponenti della linea, e la stazione ferroviaria del paese.
La strada ferrata cambia le dimensioni del mondo, e modifica delle abitudini antiche. Per la prima volta da millenni, per dirigersi dalla Marsica verso l’uno o l’altro dei due mari, non è più necessario seguire la via Tiburtina Valeria, e scavalcare a piedi, a cavallo o su un carro i valichi di Colli di Monte Bove e di Forca Caruso. Basta pagare un biglietto e salire su un treno. Se si hanno abbastanza soldi in tasca, ovviamente.
Qualche anno dopo, nella sua Guida dell’Abruzzo edita dalla sezione di Roma del CAI (il Club Alpino Italiano, nato a Torino nel 1863 e nella nuova capitale dieci anni dopo), l’alpinista e camminatore Enrico Abbate, protagonista nel 1880 delle prime ascensioni invernali del Sirente e del Velino, insegna ai cittadini appassionati di montagna come sfruttare per le loro gite la Serra di Celano, il Velino, il Sirente e le altre vette che fanno da sfondo a Pescina e al Fucino.
Per una minoranza di cittadini, i luoghi della fatica quotidiana dei montanari iniziano a trasformarsi in paesaggi pittoreschi, e poi in luoghi del divertimento e dello svago. Lo stesso, da qualche anno, ha iniziato ad accadere in Valle d’Aosta, sulle Alpi francesi e svizzere, tra la Baviera, il Salisburghese e il Tirolo, e ai piedi delle Dolomiti.
All’inizio il fenomeno riguarda solo i nobili, l’alta borghesia e qualche artista, poi si allarga progressivamente agli impiegati, agli insegnanti e ad altre categorie. Tra gli escursionisti compare anche qualche donna. Per i “cafoni” e i loro orizzonti di fatica è un’altra rivoluzione.
I cambiamenti che seguono quella giornata d’estate del 1910 sono più veloci, e molto più drammatici. Nel 1911 muore Paolo Tranquilli, il padre di Silone. Il 13 gennaio 1915, alle 7.52 del mattino, un terribile terremoto devasta la Marsica, rade al suolo Avezzano e decine di altri centri, e uccide più di trentamila uomini, donne e bambini. A Pescina le vittime sono circa quattromila, il 70% della popolazione. Tra di loro c’è Marianna, la madre del futuro scrittore.
“S’è fatta d’improvviso una fitta nebbia. I soffitti si aprivano lasciando cadere il gesso” scriverà Ignazio Silone qualche anno dopo ricordando i momenti terribili del sisma. “Quando la nebbia di gesso si è dissipata c’era davanti a noi un mondo nuovo. Palazzi che non esistevano più, strade scomparse, la città appiattita… E figure simili a spettri tra le rovine”.
Quattro mesi e undici giorni dopo il terremoto della Marsica, il 24 maggio del 1915, una dichiarazione di guerra viene inviata dal governo di Roma a quello di Vienna. Gli abruzzesi e gli altri sudditi del Regno d’Italia vengono trascinati nel conflitto contro l’Impero di Austria-Ungheria, e poi anche contro la Germania del Kaiser.
Nel resto d’Europa la guerra è scoppiata alla fine di luglio del 1914. In poco più di quattro anni, in tutto il continente, i morti sono venti milioni. Sul Carso, sull’Isonzo, sulle Alpi e sul Piave perdono la vita seicentocinquantamila militari in grigioverde. In maggioranza si tratta dei “cafoni” di Silone, arruolati in ogni parte della Penisola.
I contadini della Pianura Padana e delle Alpi, delle colline toscane e dell’Appennino, dei latifondi della Sicilia, della Sardegna e della Puglia, ignorati e maltrattati dallo Stato nella vita di tutti i giorni, diventano all’improvviso utili per essere mandati a combattere e a morire in trincea. La medesima sorte tocca a milioni di impiegati, di artigiani, di insegnanti.
Le battaglie e il sangue versato durante la Grande Guerra rendono ancora più intensi, e fanno poi deflagrare in scontri aperti i conflitti sociali, già ampiamente diffusi in Europa negli ultimi decenni dell’Ottocento. Per reprimere i movimenti di operai e contadini scendono in campo le formazioni paramilitari della destra.
La Rivoluzione russa del 1917 e la terribile guerra civile che segue, la fallita rivoluzione degli Spartachisti tedeschi nel 1918-’19, il “biennio rosso” italiano del 1919-’20, l’arrivo al potere del fascismo a Roma e del nazismo a Berlino, infine la spaventosa fornace della Seconda Guerra Mondiale cambieranno le vite di centinaia di milioni di persone. Quella di Ignazio Silone verrà scossa e trasformata più di altre.
Questo piccolo libro, che nasce mentre un’Europa in crisi commemora e ricorda la “inutile strage” di un secolo fa (la definizione è di Papa Benedetto XV, fermo oppositore della guerra), celebra il rapporto tra Ignazio Silone e i suoi scritti da un lato, e Pescina e il suo territorio dall’altro.
Non si può parlare del grande scrittore abruzzese, che riposa come aveva chiesto “ai piedi del vecchio campanile di San Berardo, a Pescina, con una croce di ferro appoggiata al muro e la vista del Fucino, in lontananza” prescindendo dalla storia drammatica dell’Europa che tanto ha influito sulla sua vita.
Nei capitoli successivi del libro, racconteremo come il mite ragazzo che studia nel Seminario Vescovile di Pescina, anche a causa della scomparsa del suo mondo quotidiano e della fame di giustizia che lo anima, si trasforma in un militante e tempo pieno, e per questo patisce la persecuzione e l’esilio.
Diremo di un Silone che vive per sedici anni in Svizzera, terra neutrale nel cuore dell’Europa. Un Paese di banche e montagne, ma anche di cultura e di industria, che confina con la Francia, la Germania e l’Italia, che è quindi “un buon osservatorio della tragedia del mondo”. E che continua a ospitarlo con affetto anche dopo la sua espulsione nel 1931 dal Partito Comunista Italiano.
Sulle rive dei laghi elvetici, in vista dei ghiacciai delle Alpi, il militante della Terza Internazionale diventa un protagonista della cultura europea. “In Svizzera io sono diventato uno scrittore; ma, quello che più vale, sono diventato un uomo” scriverà Ignazio Silone nel 1942.
Tra il terremoto della Marsica e la fine della Seconda Guerra Mondiale, influiscono sulla vita dello scrittore di Pescina il comunismo e il fascismo, la censura sulla corrispondenza e la stampa, l’esilio degli antifascisti e il confino, le decisioni di Stalin, Mussolini, Togliatti e di tanti altri protagonisti della storia. Silone conosce alcuni di loro di persona.
Le vicende del “resto del mondo”, sempre essenziali per capire, non possono essere al centro di un libro come questo. Un lavoro che vuole presentare, motivare e raccontare un passo dopo l’altro – per gli escursionisti e gli appassionati di natura, ma anche per i lettori e i bibliofili che sanno poco di scarpinate e montagne – le motivazioni e il percorso del Sentiero Silone.
Un tracciato che si snoda tra il centro storico, la valle del Giovenco e il crinale della Rocca Vecchia, dove sono delle spettacolari mura italiche quasi sconosciute ai visitatori dell’Abruzzo, e che si conclude tra le rovine del centro storico di Pescina, mai ricostruito dopo il terremoto del 1915, accanto alla tomba dello scrittore.
L’uomo del Novecento, l’esule antifascista, l’intellettuale che vive a Parigi, Zurigo e poi a Roma, il militante entusiasta che poi viene messo in crisi dal dubbio, il protagonista della cultura dell’Europa fanno tutti parte di questa storia.
Al centro del quadro, però, deve necessariamente essere quell’Ignazio Silone nato e radicato a Pescina e in Abruzzo. E che per chi segue i suoi sguardi e i suoi passi, intorno alla cittadina e alle acque del Giovenco, ritrova con più forza che altrove il volto e il nome del giovane Secondino Tranquilli.
L’Abruzzo, la Marsica, il centro storico e i dintorni di Pescina compaiono in quasi tutte le opere di Silone, da L’avventura di un povero cristiano a Fontamara, da Il segreto di Luca a Pane e vino e ai saggi brevi raccolti in Uscita di sicurezza, una autobiografia “che procede per tessere, per frammenti”, come ha scritto nel presentarla lo storico della letteratura Bruno Falcetto.
Il fascino del Sentiero Silone – oltre che nell’oggettiva bellezza dei paesaggi che si attraversano, e nell’interesse dei monumenti storici e naturali che si incontrano sul percorso – sta nell’intreccio tra la prosa dello scrittore e i luoghi che si attraversano a piedi.
Nei libri di Ignazio Silone le valli, i panorami, gli edifici che entrano a far parte delle sue storie vengono quasi sempre spostati di qualche centinaio di metri, e più raramente di decine di chilometri dalla loro posizione reale. Accade spesso però, osservando una costruzione o un paesaggio, di ritrovare in quegli orizzonti e in quelle pietre la descrizione contenuta in uno dei libri del nostro.
Sullo sfondo della sua narrazione, come si capisce leggendo anche distrattamente i suoi libri, e come lo stesso Silone ha sempre ammesso volentieri, ci sono quasi sempre Pescina, il resto della Marsica e l’Abruzzo. “Tutto quello che m’è avvenuto di scrivere, e probabilmente tutto quello che ancora scriverò, benché io abbia viaggiato e vissuto a lungo all’estero, si riferisce unicamente a quella parte della contrada che con lo sguardo si poteva abbracciare dalla casa in cui nacqui”.
Pescina, spiega Silone, spiega “è una contrada, come il resto d’Abruzzo, povera di storia civile, e di formazione quasi interamente cristiana e medievale. Non ha monumenti degni di nota che chiese e conventi. Per molti secoli non ha avuto altri figli illustri che santi e scalpellini”. “La condizione dell’esistenza umana vi è sempre stata particolarmente penosa; il dolore vi è sempre stato considerato come la prima delle fatalità naturali; e la Croce in tal senso, accolta e onorata” prosegue.
“Fontamara, questo villaggio abruzzese inventato, e che non esiste neppure in Abruzzo, è una realtà di ogni paese” aggiunge Ignazio Silone in un altro scritto. “Se Fontamara ha un merito è quello di aver rivelato questa universalità del cafone. La sofferenza del contadino povero è la stessa in tutti i paesi”.
La Pescina di oggi, ovviamente è ben diversa dalla Fontamara di Silone. Le case sono vere case, non certo le “casucce quasi tutte a un piano, irregolari, informi, annerite dal tempo e sgretolate dal vento, dalla pioggia, dagli incendi, coi tetti malcoperti da tegole e rottami di ogni sorta”.
Uomini e donne di qui sono sfuggiti al destino immutabile dei cafoni, e si dedicano a tutti i mestieri e a tutte le professioni del mondo. Ci sono impiegati e baristi, avvocati e ferrovieri, poliziotti e ingegneri, artigiani e architetti. L’agricoltura, che resta importante nel Fucino, viene praticata soprattutto dai residenti di San Benedetto nei Marsi, di Celano e di altri centri vicini, ed è comunque aiutata dalle macchine.
Ottantacinque anni fa, quando Ignazio Silone ha dato alle stampe il suo primo romanzo, poteva scrivere che “a Fontamara non c’è bosco; la montagna è arida, brulla, come la maggior parte dell’Appennino. Gli uccelli sono pochi e paurosi, per la caccia spietata che ad essi si fa”.
Oggi anche questa condizione è cambiata. Pescina, porta di quel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise che è stato istituito nel 1923 quando il ventitreenne Secondino Tranquilli si dedicava alla militanza comunista, è interessata da qualche anno anche dal Parco Regionale Sirente-Velino, che include il Monte Ventrino e Forca Caruso.
I caprioli sono ormai numerosi, gheppi e poiane si lasciano avvistare facilmente, il lupo compare spesso sulle alture. In cielo plana l’avvoltoio grifone, reintrodotto anni fa sul massiccio del Velino. Lo spettacolo della natura è ridiventato una delle grandi attrattive dell’Abruzzo, e questo ci fa certamente piacere.
Quando Ignazio Silone in Vino e pane descrive la posizione di Pescina rispetto al Fucino, alle montagne, alla ferrovia e alla strada, rivela una profonda conoscenza dei luoghi maturata negli anni dell’infanzia e della prima adolescenza. Le sue indicazioni restano perfettamente valide anche oggi.
“A destra si trovavano la strada ferrata e la via Valeria che, tra campi di fieno, di grano, di patate, di bietole, di fagioli, di granturco, portava ad Avezzano, si arrampicava fino a Colli di Monte Bove, scendeva a Tivoli e infine, come ogni fiume che sfocia in mare, conduceva a Roma” annota.
“A sinistra, tra i vigneti, i piselli, le cipolle, c’era la via provinciale che si inerpicava subito tra le montagne e s’addentrava nel cuore dell’Abruzzo, nella regione dei faggi, dei lecci e dei superstiti orsi, conducendo a Pescasseroli, a Opi, a Castel di Sangro.”
Nel 1948 il Touring Club Italiano gli chiede di scrivere un saggio introduttivo per il volume Abruzzo, che esce con il titolo La terra e la gente, e che l’autore rielabora nel 1963 per la seconda edizione del libro. Lo sguardo di Ignazio Silone si sposta dalla Marsica alla Majella, la “Montagna madre” d’Abruzzo, la seconda per quota dell’Appennino, che per chi osserva da Pescina si alza oltre Forca Caruso e Sulmona. Ma le pietre, le solitudini, la fatica restano sempre gli stessi.
“La Maiella è il Libano di noi abruzzesi. I suoi contrafforti, le sue grotte, i suoi valichi sono carichi di memorie. Negli stessi luoghi dove un tempo, come in una Tebaide, vissero innumerevoli eremiti, in epoca più recente sono stati nascosti centinaia e centinaia di fuorilegge, di prigionieri di guerra evasi, di partigiani, assistiti da gran parte della popolazione”.
Non a caso, il personaggio di Silone che meglio si inserisce in questo mondo selvaggio, remoto anche se a due passi dalle città e dai paesi, non è un personaggio di fantasia ma Fra’ Pietro Angeleri, il religioso che diventa Papa Celestino V. Silone, non a caso, lo definisce “il più abruzzese dei Santi”, e aggiunge che “non si può capire un certo aspetto dell’Abruzzo senza capire lui”.
Le pareti calcaree che si affacciano sulle acque limpide del Giovenco non sono quelle dell’Orfento o degli altri maestosi canyon della Majella. I panorami dalla Sella delle Capre e dalla statua dell’Alpino di Pescina abbracciano il Monte Mezzana e il mite versante meridionale del Sirente, non le ciclopiche pareti rocciose del Gran Sasso.
Il ritmo della scrittura di Silone, le parole che utilizza, l’atmosfera che crea nei suoi libri fanno sentire a casa anche chi si sieda a leggerle o rileggerle nei luoghi più famosi d’Abruzzo: ai piedi delle torri di Rocca Calascio, tra i boschi di Pescasseroli, tra le chiese e i palazzi di Pescocostanzo, nell’immensità erbosa di Campo Imperatore.
Ma l’atmosfera solenne delle valli e dei crinali intorno a Pescina, i segni della fatica quotidiana e della fede dell’uomo, l’intreccio tra la natura e la storia, il contrasto tra le acque limpide del fiume e il desolato paesaggio circostante fanno sì che i luoghi toccati dal Sentiero Silone siano un piccolo, bellissimo concentrato dell’Abruzzo. Uno strumento prezioso, per amare e capire una terra straordinaria.
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