Ottant’anni fa, il 7 aprile del 1944, i boschi e gli altopiani dei Monti Sabini sono teatro di un’aspra battaglia e di una strage. A compierla i militari tedeschi della Divisione Hermann Göring e di altre formazioni della Wehrmacht, e i fascisti della 116ª Legione della Guardia Nazionale Repubblicana. Una presenza che qualcuno ha cercato di nascondere, anche durante le recentissime celebrazioni delle Fosse Ardeatine.
Le montagne della Sabina, anche se aspre e rocciose, sono vicine a Roma. Per questo, tra il 1943 e il 1944, salgono a rifugiarsi tra Poggio Mirteto, Roccantica e il Tancia decine di partigiani della Capitale. Molti provengono dalle borgate di Tor Pignattara e del Quadraro, la culla della Resistenza romana, e hanno combattuto contro i tedeschi a Porta San Paolo e a Centocelle.
Operano nella stessa zona due gruppi locali, che comprendono militari, renitenti alla leva di Salò, antifascisti usciti dalla clandestinità o dalla prigione e militari britannici fuggiti dal campo di concentramento di Farfa. La prima è comandata da Patrizio D’Ercole, maggiore del Regio Esercito, legato al Fronte Clandestino Militare di Roma guidato dal colonnello Giuseppe di Montezemolo.
La seconda è la Brigata autonoma Stalin, al comando di Redento Masci, formata in maggioranza da comunisti locali. Le due formazioni attaccano i presidi tedeschi e fascisti, distruggono gli elenchi della leva, invitano i giovani a non rispondere alla chiamata alle armi di Salò.
Il 19 settembre 1943, nella stazione di Poggio Mirteto, i partigiani danno fuoco a un treno merci, distruggendo tre vagoni carichi di munizioni, quattro cisterne piene di carburante e quattro vagoni di grano requisito pronto per essere inviato in Germania.
Viene danneggiato anche il treno privato di Mussolini, parcheggiato lì per farlo scampare ai bombardamenti alleati su Roma. Seguono vari attentati contro il ponte ferroviario di Galantina, anche per fermare (senza riuscirci) i treni che devono portare in Germania gli ebrei rastrellati nel Ghetto di Roma il 16 ottobre.
Il 7 aprile, Venerdì Santo, centinaia di militari della Göring, affiancati dai repubblichini della 116ª Legione, cercano di sorprendere i partigiani del Tancia. Ma la sorpresa non funziona. Quando i primi proiettili di mortaio colpiscono le postazioni, le unità della Resistenza contrattaccano cogliendo di sorpresa il nemico.
I partigiani di Poggio Mirteto si appostano in località Crocetta, quelli di Gavignano sul versante di Poggio Catino. I combattenti arrivati da Roma controllano il valico erboso dove sorge l’Osteria del Tancia, e la strada che, attraversando una gola rocciosa, mette in comunicazione Monte San Giovanni in Sabina con Poggio Catino, Roccantica e Casperia.
Per l’intera giornata le formazioni della Resistenza tengono, poi la differenza in uomini e mezzi si fa sentire, e i partigiani iniziano ritirarsi. Per tenere aperta la via della fuga ai compagni, un gruppo di combattenti presidia il Monte Arcucciola. Li comanda Bruno Bruni, 21 anni.
L’unica mitragliatrice del gruppo, da una spalla rocciosa, ferma l’avanzata di tedeschi e fascisti e consente a centinaia di persone di fuggire. Alla fine i ragazzi dell’Arcucciola tentano di sganciarsi, ma l’altruismo costa loro la vita. Bruno e gli altri scendono in un canalone, si accorgono che uno di loro è rimasto sulla cima, risalgono per aiutarlo e vengono accerchiati e uccisi.
Insieme a Bruno, che riceverà una medaglia d’oro alla memoria, muoiono il fratello Franco, 18 anni, e altri cinque giovani. Anche Nello Donnini ha 18 anni, Domenico Del Bufalo 20, Alberto Di Battista 22. Giacomo Donati, il più grande, ha 36 anni. Giordano Sangallo, il più giovane, ha solo 16 anni ma ha già combattuto a Centocelle e a Tor Pignattara.
Altri partigiani, lo stesso giorno, vengono catturati e uccisi a Salisano, Poggio Mirteto e Roccantica. Poi inizia la rappresaglia contro i civili innocenti. All’alba dell’8 aprile, i soldati della Wehrmacht incendiano i casali contadini del Tancia e uccidono diciotto persone, compresi sette bambini dai 2 agli 11 anni. Lo stesso 7 aprile, a Leonessa, vengono trucidati il parroco don Concezio Chiaretti e altri ventidue cittadini. Il 9 aprile, giorno di Pasqua, quindici partigiani catturati a Leonessa e sul Tancia vengono fucilati a Rieti.
Solo un mese dopo la battaglia del Tancia, don Igino Guidi, parroco di Bocchignano (e cappellano dei partigiani, ma questo i tedeschi non lo sanno) ha il permesso di cercare i corpi dei caduti. Sale sul Monte Arcucciola si raccoglie in preghiera accanto ai resti di Bruno Bruni e degli altri, li seppellisce in una fossa comune.
“Ci inchinammo profondamente e mormorammo la preghiera. Col pianto alla gola pensammo allora alle mamme, ai cari tutti, lontani. Scrutammo ansiosamente quelle fisionomie, disfatte dal piombo, dalle intemperie, dalla morte” scrive Guidi nella sua Narrazione di un parroco patriota.
“Accarezzai e baciai per le mamme, a nome dell’Italia, quelle carni martoriate. Posai sulle bare un’immagine sacra, le avvolgemmo con un manto tricolore di fiori raccolti nella Montagna, e parlai ai vivi e ai morti, poche parole di eternità” conclude il sacerdote-partigiano.
Oggi il bel sentiero che sale al Monte Tancia, segnato solo in parte dal CAI, inizia non lontano dal monumento che ricorda le vittime della strage dell’8 aprile. Dalla strada che costeggia il Fosso di Galantina, i cartelli del Museo Diffuso della Resistenza e di un centro sociale romano indicano il ripido sentiero che sale verso il Monte Arcucciola. Sul punto più alto sono una croce di ferro che indica il punto dove Bruno Bruni e gli altri sono stati trucidati. Un cippo e una lapide ricordano i sette giovani partigiani.
“Qui, novelli eroi delle Termopili, caddero il 7 aprile del 1944 sopraffatti dalla rabbia teutonica. O viandante, china la fronte e pensa che l’eterna luce d’Italia circonda di luce e d’amore il sublime olocausto delle fiorenti giovinezze”.
Li’ vennero fucilati dai nazifascisti tre giovani del quartiere san lorenzo a Roma, i fratelli Favola e il loro cugino, abitavano in via dei Vestini.
I miei nonni materni lavoravano come contadini a Monte San Giovanni Sabino, il loro casale venne razziato e quelli vicini dati alle fiamme. Mio nonno e il figlio maschio portati a Rieti, succivamente rilasciati per intervento di mia nonna e altre donne del reatino