Da qualche anno, i media che s’interessano all’alpinismo dedicano molto spazio alle invernali in Karakorum e in Himalaya. E’ giusto, perché le sfide affrontate da Denis Urubko, Alex Txikon, Simone Moro, Tamara Lunger e dai loro compagni di avventura sono una frontiera importante dell’alpinismo di oggi.
E’ giusto ricordare, però, che per decenni le imprese invernali sugli “ottomila” non hanno avuto l’attenzione di oggi. E che sono state le due tragedie avvenute nel 2018 e nel 2019 sul Nanga Parbat, con la morte prima di Tomasz Mackiewicz e poi di Daniele Nardi e Tom Ballard, a portare sotto i riflettori queste salite.
Nessuno, almeno sui media italiani, ha finora ricordato la straordinaria impresa degli alpinisti polacchi, che quarant’anni fa hanno compiuto la prima salita invernale dell’Everest. Ad arrivare sugli 8848 metri della cima, alle 14.25 del 17 febbraio 1980, sono Krzysztof Wielicki (a sinistra nella foto) e Leszek Cichy.
A spingerli, oltre alla loro abilità ad alta quota, sono gli incoraggiamenti di milioni di polacchi, e le preghiere di Papa Giovanni Paolo II, che da giovane sacerdote ha praticato l’escursionismo e l’alpinismo sui Tatra.
A ideare e a organizzare la spedizione, e a rendere possibile il trionfo, è Andrzej Zawada, geologo dell’Accademia delle scienze polacca, e alpinista con grandi capacità di organizzatore. Nato nel 1928, ha attraversato da ragazzo e da adolescente gli anni terribili della guerra, dell’invasione nazista e poi dell’arrivo dell’Armata Rossa.
Protagonista nel 1959 di una durissima traversata invernale dei Tatra, e nel 1973 della prima invernale del Noshaq, 7492 metri, nell’Hindu Kush (con Tadeusz Piotrowski, un altro grande), Zawada riceve il permesso da Kathmandu solo il 22 novembre. Il 5 gennaio tutto il team è al campo-base. Un miracolo.
Tutti i membri della spedizione del 1980 (Kryzstof Cielecki, Ryszard Dmoch, Walenty Fiut, Ryszard Gajewski, Andrzej Heinrich, Jan Holnicki-Szulc, il dottor Robert Januk, Janusz Macka, Kazimierz Olech, Maciej Pawlijowski, Rysziek Szafiurski e Krysztof Zurek) meritano una menzione e un applauso.
Tra di loro ha un ruolo speciale Bogdan Jankowski, alpinista e mago dell’elettronica, che costruisce accanto alle tende del campo-base due antenne radio-telefoniche alte una ventina di metri. Grazie a lui, l’annuncio della vittoria arriva a Varsavia e nel mondo in tempo quasi reale. Un dettaglio oggi normale, ma che all’epoca fa scalpore.
Negli anni che seguono, con le salite invernali di altri sette “ottomila” tra i quali il Dhaulagiri, l’Annapurna e il Kangchenjunga, tutti si accorgeranno della classe e della tenacia di quel gruppo di alpinisti polacchi.
Il racconto della salita e della discesa dall’Everest, scritto da Wielicki e da Cichy, utilizza toni tranquilli, ma fa capire che i due corrono rischi tremendi.
Portano nove chili di respiratori e bombole (“non sentii chissà quale beneficio da quell’ossigeno, mentre sentii perfettamente il progressivo congelamento del volto causato dalla maschera” scriverà molti anni dopo Wielicki), non trovano difficoltà sull’Hillary Step ma incontrano condizioni faticose sulla cresta oltre la Cima Sud.
Sulla vetta più alta del mondo, i due polacchi lasciano un termometro, un rosario donato da Papa Woytjla e una cartolina della loro spedizione, in una busta di cellophane. La discesa, al buio nell’ultimo tratto, è la fase più dura.
Cichy scende per primo e sparisce, Wielicki ha un terribile dolore alle gambe, si abbassa faccia al pendio e resta indietro, sul pianoro del Colle Sud fatica a trovare il campo e il compagno, rischiando di perdersi e morire.
Quando finalmente si trascina nella tenda, invece di dormire, cerca di salvare le dita gelate dei piedi tenendole per ore sul fornello acceso, con il terrore di causare un incendio. Quando i piedi iniziano a gonfiarsi, Krzysztof Wielicki capisce che sono ancora vivi, e si concede un po’ di sonno.