Per i nostri connazionali più giovani, quelli che hanno l’età dei miei figli (vent’anni o poco più), anche la celebre capocciata rifilata da Zidane a Materazzi nel 2006 è uno “scontro tra Italia e Francia” remoto. Figuratevi la guerra sulle Alpi, combattuta nel 1940.
Invece è bene ricordare cos’è accaduto in quei cinque ingloriosi giorni di giugno sui monti tra il Monte Bianco e il Mar Ligure. Libri terribili, come “Il sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern, hanno fatto conoscere a generazioni di italiani la catastrofe della campagna di Russia, e le sue decine di migliaia di vittime.
Lo stesso è accaduto alla guerra combattuta sui monti dell’Albania e della Grecia, un altro frutto dell’avventurismo e della retorica fascista. Una campagna che è costata la vita a migliaia di alpini e di fanti italiani, e di soldati e ufficiali ellenici caduti per difendere la patria.
La guerra alpina contro la Francia, iniziata il 21 e terminata il 25 giugno del 1940, non è stata uno scherzo. Preceduta da mesi di preparativi (sulla frontiera erano schierati 315.000 militari italiani), è stata dichiarata da Mussolini a Piazza Venezia il 10 giugno. L’ambasciatore francese, quando ha ricevuto la nota ufficiale, ha parlato di una “pugnalata nella schiena”.
In quei giorni, ricordiamolo, l’esercito francese era stato già schiantato da quello di Hitler. Ciò nonostante, gli attacchi italiani sono stati bloccati quasi ovunque, dal Col de la Seigne al Monginevro e ai valichi tra il Cuneese e l’Ubaye.
Per prendere Mentone, a 4 chilometri dal confine, ci sono voluti due giorni. La parata che Mussolini voleva fare a Nizza non c’è mai stata, come quella al Cairo due anni e mezzo dopo. Alla fine, dopo l’armistizio franco-tedesco di Compiègne, le truppe italiane sono potute arrivare al Rodano, e sono sbarcate in Corsica.
Il prezzo di questa “gloria” tanto voluta dal regime fascista sono stati 631 morti, 616 dispersi, e 2631 tra congelati e feriti, più naturalmente i militari e le vittime civili francesi.
Sette anni dopo, al ritorno della pace in Europa, la nuova Francia di De Gaulle avrebbe presentato il conto annettendosi la Val Roya e la Valle Stretta, e spostando di un paio di chilometri il confine al Piccolo San Bernardo, al Moncenisio e al Monginevro. Il generale voleva anche la Valle d’Aosta, che però prima del Traforo del Bianco era staccata dalla Francia per sei mesi e più ogni anno.
Oggi migliaia di escursionisti, ogni estate, scoprono i forti e le trincee delle Dolomiti, del Pasubio e dello Stelvio, lasciate dalla guerra 1915-’18. Solo pochi, invece, vanno in cerca delle trincee del Col de la Seigne e delle valli cuneesi, o salgono dall’alta Valle di Susa allo Chaberton, l’invincibile forte italiano che è stato schiantato in poche ore dall’artiglieria francese.
E’ un errore, perché anche quelle pietre e quei vecchi bunker parlano. Consiglio a tutti di andarci, nella prossima estate, di andarci per osservare e capire.
“Quella contro la Francia è stata una guerra schifosa” ha scritto Mario Rigoni Stern che l’aveva combattuta tra gli alpini. Lo si scopre anche al Col de la Seigne, dove alle casermette e ai bunker fa da sfondo la meraviglia del Monte Bianco.
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