Scrivere prefazioni per i libri degli amici è un piacere e un onore. Ci tengo a ribadirlo, perché qualche settimana fa, in questo blog, mi sono dovuto lamentare dei comportamenti sgradevoli e scorretti di alcuni autori ed editori ai quali avevo fatto lo stesso favore. Con Luca Mazzoleni (nella foto), un vecchio amico amatissimo dai frequentatori del Gran Sasso, e con l’ediotore Giacinto Damiani di Ricerche&Redazioni questo rischio non c’è. Leggete il libro, perché ne vale la pena.
I rifugi e chi li gestisce, per molti frequentatori dei monti, sono spesso una realtà scontata. Si prenota per telefono o sul web, si sale lungo percorsi più o meno impegnativi, ci si registra, si cena, si riparte a un’ora variabile a seconda del massiccio, dell’itinerario prescelto e della quota.
Chi è diretto verso un sentiero, un’arrampicata o una ferrata delle Dolomiti s’incammina quando il sole è già alto nel cielo. Sul Monte Bianco e sulle altre grandi vette di ghiaccio si esce dalla capanna ancora al buio, con le pile frontali, e la piccola luce del rifugio viene subito inghiottita dall’ombra.
Il (o la) rifugista, soprattutto nelle strutture più grandi, spesso non si vede proprio. Si parla con l’incaricato della reception, o con chi porta a tavola zuppe, pizzoccheri o polenta. “Buongiorno, ho prenotato per due”. “Ecco la tessera del CAI”. “Mi fa il conto?”. Se non si sale a dormire, ma soltanto per pranzo, il rapporto è ancora più limitato. Si cerca davvero il gestore solo quando il tempo di guasta, e serve un consiglio informato. O se si è coinvolti in un incidente, e si deve chiamare il Soccorso.
Non è sempre stato così, e anche oggi le eccezioni ci sono. Gli alpinisti della mia generazione ricordano con affetto gestori burberi e gentili al tempo stesso come Bruno Detassis del rifugio Brentei, Almo Giambisi del rifugio d’Antermoia, o la mitica Babette Borgeat dell’Envers des Aiguilles, a suo agio con una quiche come con le ultime vie di alta difficoltà tracciate sul granito del Monte Bianco. Grazie ai social, da qualche anno, esistono gestori-star come Carlo Budel della Capanna di Punta Penia, in Marmolada.
Sull’Appennino e sul Gran Sasso, le montagne di casa per Luca, per me e per molti dei nostri amici comuni, i rifugi sono una realtà quasi sconosciuta. Anche in Abruzzo e nelle regioni vicine, come sulle Alpi, abbondano i “rifugi cosiddetti”, ristoranti e alberghi accanto alle piste da sci e alle strade. Al contrario che sulle Dolomiti o in Val d’Aosta, però, da noi i rifugi autentici, quelli dove si arriva a piedi, sono rari.
Luca Mazzoleni è diventato un personaggio conosciuto e apprezzato anche per questo. Prima che lui (e Sandrina) entrassero in scena, per salire al Corno Grande d’inverno bisognava procurarsi le chiavi del Duca degli Abruzzi al CAI, litigare con la serratura ghiacciata, e una volta dentro accendere la stufa e ripararsi perché il ghiaccio sul soffitto si scioglieva, e per qualche ora nel rifugio pioveva.
Se si pensa alla realtà precedente, l’arrivo di Luca e Sandra, e quindi la possibilità di dormire senza scafandro, e di trovare un piatto di pasta o una zuppa bollente invece di doverseli preparare da soli, è stata una rivoluzione. Il ritrovarsi la sera tra amici era un di più, ma altrettanto gradito.
Poi Luca ha fatto un passo ancora più lungo, ha lasciato il Duca per il Franchetti, si è misurato con un rifugio altrettanto piccolo ma più organizzato e strutturato, e con due predecessori ingombranti come Pasqualino Iannetti e Gigi Mario. Lo ha fatto bene, senza sgomitare, costruendo la sua notorietà e il suo carisma passo passo.
Negli anni, ho raccontato il suo lavoro e la sua storia in articoli su siti, quotidiani e riviste, e in un documentario trasmesso da Geo & Geo. Ma erano flash, impressioni, momenti. In questo libro, Luca racconta la sua storia tutta intera, dai primi incontri con il Gran Sasso e con il Morra, e dai primi dubbi su cosa fare da grande, fino alla scelta di lasciare il liceo e di prendere in gestione un rifugio, accettando un carico enorme di fatica e anni di precarietà economica.
Pagina dopo pagina, senza filtro, sfilano amicizie e problemi di famiglia, le storie d’amore per le sue successive compagne e l’enorme affetto per i suoi cani. Il racconto della morte per vecchiaia di Pippo, uno degli amici a quattro zampe di Luca, commuove anche il lettore più smaliziato.
Poi arriva il dolore vero, quello di una malattia molto grave, del terremoto del 2009 che devasta L’Aquila e Pietracamela e quello del 2016 che squassa anche il Franchetti e il Corno Piccolo. Dei tanti anni da volontario nel Soccorso Alpino, più degli incidenti risolti e del sorriso dei salvati, Luca racconta i momenti terribili passati davanti al dolore e alla morte.
Leggere dall’inizio alla fine questo libro significa compiere un viaggio nella storia e nella vita di una bella persona, e vale la pena farlo già per questo motivo. Per chi si accosta alla montagna, però, può avere anche una funzione didattica.
Leggere la storia di Luca aiuta chi sale per la prima volta al Franchetti a capire che un piatto di pasta, una notte al calduccio o un cappuccino, banali al livello del mare, tra queste rocce a 2433 metri di quota costano a chi le offre sacrifici e fatica, e meritano un grazie che arriva dal cuore.
Buona lettura e buon Gran Sasso!
Una bellissima prefazione, non solo perché, come ormai ci ha abituato Stefano Ardito, è scritta benissimo, ma anche e soprattutto perché traspira amore in ogni parola e in ogni pensiero.
Racconta di un legame solido di amicizia, di stima e di passioni condivise. L’invito a leggere il libro, così espresso, non può che essere raccolto e seguito.