Ho passato due settimane lontano dall’Italia, e per un po’ sono stato fortunatamente lontano dalle discussioni e dalle polemiche di casa. Ma davanti al santuario indù di Gangotri, dove i fedeli si purificavano immergendosi nelle gelide acque del Gange, mi ha raggiunto una buona notizia.

Il Consiglio di Stato, lo scorso 14 ottobre, ha accolto il ricorso presentato dal WWF, dalla LAV e dalla LNDC Animal Protection. L’apertura della caccia al cervo in Abruzzo, con il previsto abbattimento di 469 animali, cerbiatti compresi, è stata sospesa per qualche settimana, in attesa della decisione definitiva. Da qualche ora ho saputo che la decisione è ulteriormente slittata. Come tanti altri, resto in attesa con fiducia.

Negli ultimi mesi, da quando la decisione di aprire la caccia al cervo è stata annunciata dalla Regione Abruzzo, ho apprezzato la campagna delle associazioni ambientaliste, e gli interventi di molti abruzzesi famosi. Tra loro si è distinto il musicista Franz Di Cioccio, leader della PFM, che ha invitato più volte Marco Marsilio, presidente della Regione, a ripensarci.

Vale la pena ricordare che il cervo, nei primi decenni del Novecento, non esisteva più sui monti e nei boschi dell’Appennino centrale. A riportarlo in Valle del Sangro, cuore dell’allora Parco nazionale d’Abruzzo, e poi anche sulla Maiella e in altre zone, è stato il Corpo Forestale dello Stato nei primi anni Settanta. Un’operazione storica, ricordata da una celebre foto dei cervi, liberati sulla riva del Lago di Barrea, che traversano il bacino a nuoto in direzione del massiccio del Monte Greco.

Da allora, l’aumento della popolazione dei cervi ha consentito un importante riequilibrio ecologico, permettendo l’aumento del numero dei lupi, e riducendo allo stesso tempo la loro pressione sulle greggi, e quindi rendendo il lavoro più facile ai pastori. Negli anni, la presenza dei cervi è diventata un’attrattiva turistica importante, soprattutto a settembre e a ottobre, nella stagione dei bramiti e dei duelli tra i maschi.

A Villetta Barrea, il “paese dei cervi”, maschi e femmine della specie passeggiano tranquillamente in paese, e si radunano numerosi tra il lago artificiale e il centro storico, spesso assediati con ben poca attenzione da fotografi e curiosi. Lo stesso accade a Villalago, a Pescasseroli, a Scanno e a decine di altri centri. Lo spettacolo dei cervi, da qualche anno, può essere ammirato anche sulla Maiella, al Gran Sasso, tra il Velino e il Sirente, e fuori dall’Abruzzo sui Monti Simbruini o tra le foreste del Molise.

Da tempo, alcuni sindaci dell’alta Valle dell’Aterno, a est dell’Aquila, si lamentano perché, nei loro territori, i cervi creano seri danni all’agricoltura. Li capisco, credo che il problema debba essere risolto, ma non credo che la soluzione sia l’apertura della caccia a questi animali magnifici.

Qualche settimana fa, prima di partire per l’India, ho condiviso e apprezzato le parole di Vincenzo Brancadoro, ex-presidente della Sezione dell’Aquila del CAI. “Non voglio negare i problemi che crea il cervo (e ancor di più il cinghiale), sia per l’agricoltura, sia per la sicurezza stradale. Esistono però alternative all’abbattimento: una campagna di sterilizzazione delle femmine, fornitura agli agricoltori di recinzioni elettrificate a basso voltaggio, sedazione e trasferimento in aree che possano sopportare il numero, in fondo esiguo, degli esemplari in eccesso” scrive Vincenzo.

Soprattutto, spiega l’amico Brancadoro, l’Abruzzo ha bisogno di ben altra visione, di prospettiva, ha una natura meravigliosa che già è e potrebbe diventare ancora di più un potente attrattore turistico, ben più del turismo della neve o della costa adriatica. Per un territorio che si autodefinisce “Regione verde d’Europa”, la scelta di eliminare parti di biodiversità è miope e folle”.

Guarda caso, pochi giorni dopo la decisione della Regione, la Riserva dell’Abetina di Rosello (che è un ente regionale dell’Abruzzo!) si è dichiarata pronta a ospitare immediatamente 40 degli animali considerati “in eccesso” e quindi da eliminare.

So bene che molte amministrazioni locali italiane coltivano i propri rapporti con la lobby dei cacciatori, e che questo non riguarda soltanto le Regioni governate dalla destra. Ogni anno, dalle Alpi alle Sicilia, nuove specie di mammiferi e di uccelli vengono inserite nella lista delle specie cacciabili.

Ogni anno, in tutta Italia, si moltiplicano le “preaperture” della caccia, in settimane critiche per gli uccelli migratori. Dall’Europa, e ancora di più dalla “civile” Svizzera, arrivano segnali che preannunciano la riapertura di una caccia incontrollata al lupo, la specie la cui ripresa, più delle altre, ha segnalato la rinascita della natura del continente.

Ma non bisogna adeguarsi al male. Come scrive Vincenzo Brancadoro, resto convinto che l’Abruzzo avrebbe potuto risparmiarsi l’apertura della caccia al cervo. Da anni la neve d’inverno latita, e nonostante il successo di Roccaraso e dintorni, le decine di stazioni e di impianti abbandonati tra il Gran Sasso, la Maiella e gli altri massicci dimostrano che lo sci di pista, da solo, non può essere un pilastro dell’economia regionale.

Segnali poco incoraggianti arrivano anche dal turismo delle spiagge, mentre il turismo della cultura e dell’arte – nonostante il numero e la bellezza dei borghi, delle piccole città, delle abbazie, degli eremi, dai musei e delle aree archeologiche d’Abruzzo – non è certo paragonabile come numeri a quello della Toscana e dell’Umbria.

L’Abruzzo, cuore verde e integro dell’Appennino, ha numeri da record, e che possono ancora aumentare, solo su un tipo di turismo. Quello della natura, dei sentieri e dei boschi, del lupo, dell’orso e del cervo. Da questo punto di vista, decidere di aprire la caccia a una delle specie più evocative e più belle – qualunque cosa decida il Consiglio di Stato – equivale a un suicidio d’immagine, grave per gli Abruzzesi di oggi e ancor più per i loro figli e nipoti.