Storie di spedizioni, vicende di capi. L’alpinismo himalayano, nato dalle avventure di piccoli gruppi di amici (pensate a personaggi come Mummery, Freshfield o Shipton!) è tornato da qualche anno simile a com’era in passato grazie alle ascensioni in stile alpino. Prima, nei decenni che hanno visto la conquista delle cime più alte, è stato segnato dalle gerarchie, e ovviamente dai capi-spedizione.

Certo, anche la più rigida delle spedizioni lascia ai suoi uomini di punta degli autentici spazi di avventura. Anche negli anni Cinquanta e Sessanta, montagne gigantesche e difficili sono state salite da piccoli gruppi di alpinisti, come quello di Hermann Buhl e Kurt Diemberger nel 1957 sul Broad Peak. Anche alcune spedizioni nazionali, come quella britannica del 1953 all’Everest, hanno conservato l’atmosfera di un gruppo di amici.

In altri casi il capo c’era davvero, e per avere degli esempi non c’è bisogno di scomodare le mega-spedizioni giapponesi o dei Paesi dell’Est europeo. Personaggi come Karl Herrligkoffer, Norman Dyrenfurth, e lo stesso Chris Bonington sulla parete Sud-ovest dell’Everest, hanno comandato davvero.

Nel mondo dell’alpinismo e delle spedizioni italiane, il capo più capo di tutti è stato il professor Ardito Desio, nato a Palmanova in Friuli, tuttora sulla cresta dell’onda grazie alle recenti misurazioni che hanno cambiato le quote ufficiali dell’Everest e del K2. Abituato a spedizioni scientifiche leggere, al centro di polemiche furibonde prima e dopo la spedizione, il professor Desio ha interpretato il suo ruolo in modo classico, severo e vincente.

Si possono disapprovare molte cose, ma non si può negare che l’organizzazione di Desio sia stata uno dei fattori decisivi grazie ai quali, il 31 luglio 1954, Achille Compagnoni e Lino Lacedelli hanno raggiunto la seconda vetta del pianeta. Nel 1958 Riccardo Cassin, l’eroe della Cima Ovest e dello Sperone Walker, ha diretto la vittoriosa spedizione italiana al Gasherbrum IV con bonomia montanara ma con altrettanta decisione nel comando.

Il K2, tra le grandi vette della Terra, rimane la ‘‘montagna degli italiani’’. Tentata nel 1909 dal Duca degli Abruzzi, salita nel 1954 dalla spedizione diretta da Ardito Desio, è stata nuovamente raggiunta nel 1983, dal versante cinese, dalla équipe diretta dal veneto Francesco Santon. In cima, trent’anni dopo Compagnoni e Lacedelli, sono arrivati Agostino Da Polenza, Fausto De Stefani, Sergio Martini e il ceco Joska Rakoncaj.  

La “montagna degli italiani” è tale anche nel dolore. Nel 1954 i pendii sotto alla vetta del K2 hanno visto l’odissea di Walter Bonatti e dell’hunza Mahdi, sullo Sperone Abruzzi il mal di montagna ha ucciso Mario Puchoz. Nella tragica estate del 1986 (tredici morti!) ha perso la vita in un crepaccio Renato Casarotto, uno dei più forti alpinisti europei del dopoguerra.

Non è facile intervistare Ardito Desio. Trent’anni di polemiche seguite alla spedizione al K2 hanno lasciato il segno. Il tono formale della conversazione, le risposte da riportare con pignola esattezza sono più simili all’intervista a un politico che alla conversazione rilassata che si può avere normalmente con un alpinista.

Nei decenni trascorsi dall’impresa del 1954 al K2, l’alpinismo è passato dall’esplorazione votata alla conquista delle cime (spesso da parte di spedizioni nazionali) a un approccio commerciale o sportivo. L’alpinismo fuori dall’Europa, nell’era dei viaggi e dei trekking di massa, è diventato qualcosa di molto diverso da quello dei tempi di Desio. Non è cambiato solo l’alpinismo, però. Negli anni che separano la vittoria sul K2 dai giorni nostri sono cambiati l’Italia e il mondo.

Professor Desio, preparando la spedizione del 1954 al K2, lei scriveva che “l’organizzazione della spedizione deve avere una impostazione di tipo militare”. Prima di partire, ha fatto impegnare gli alpinisti a “prestare obbedienza incondizionata e assoluta al Capo della Spedizione”, con tanto di iniziali maiuscole. Non le sembra di aver esagerato?

Credo proprio di no. So di essere stato severo, anche duro. In un suo libro recente Maurice Herzog mi chiama “Cesare” Desio.

Ma una cosa è il carattere, una cosa è la disciplina militare, professore.

È giusto, ma anche la disciplina ci voleva. Non credo che lei abbia mai fatto una spedizione così lunga…

No, professor Desio.

…ed è inevitabile che in una spedizione così lunga ci siano dei momenti critici, dei problemi anche seri. Mantenere la disciplina è l’unica soluzione. Poi sa, oggi la gente è abituata a viaggiare. Gli alpinisti della spedizione, tutti ragazzi eccezionali, non avevano mai messo piede fuori dall’Europa. Per me era la tredicesima spedizione.

Tutte in Karakorum?

No. Appena laureato ho fatto delle lunghe ricerche geologiche nelle isole del Dodecaneso, che erano diventate italiane nel 1912. Nel 1926 sono stato per la prima volta in Libia. Nel 1928 ho avuto la possibilità di partecipare come geologo alla spedizione del Duca di Spoleto in Karakorum. Quest’ultimo invito è stato un colpo di fortuna. Ma poi è successo di tutto.

Guai a spedizione avviata?

No, molto prima di partire. Doveva essere una grande spedizione alpinistica, nel decennale della vittoria nella Prima Guerra Mondiale. Poi Umberto Nobile ha deciso di volare verso il Polo Nord, e i fondi sono andati a lui. Nel 1928 è partito per il Karakorum solo il Duca di Spoleto, per fare una ricognizione preliminare.

E così siete partiti l’anno dopo, nel 1929.

Sì, ma la storia non si è chiusa lì. La spedizione Nobile è finita in tragedia, con la caduta del dirigibile Italia e l’odissea dei naufraghi della “tenda rossa”. Per questo Mussolini ha proibito la parte alpinistica della spedizione. “Basta con i rischi che possono mettere in ansia il popolo italiano!” ci ha scritto.

Il problema era l’immagine dell’Italia nel mondo, no?

Probabilmente sì. I fondi sono stati drasticamente ridotti, e la parte scientifica ha avuto il sopravvento sul resto. Io, come geologo, sono partito lo stesso. Era dal 1909 che nessun europeo metteva piede sul Baltoro, e c’erano moltissimi rilievi da fare. Di un tentativo alla vetta, nemmeno a parlarne.

Però il K2 lo avete visto, studiato, analizzato…

Sì. Abbiamo fatto dei rilievi fotogrammetrici sul Baltoro, poi abbiamo scavalcato il Passo Muztagh e siamo scesi nell’alta valle Shaksgam, nel Turkestan cinese. Eravamo quattro: io, Umberto Balestreri, Vittorio Ponti e la guida Leone Bron di Courmayeur. E abbiamo visto per la prima volta il versante settentrionale del K2.

Eravate i primi europei a passare di là, professore?

Probabilmente i secondi. Nel 1888, Francis Younghusband era passato da quelle parti nel suo viaggio da Pechino al Kashmir. Traversò il Passo Muztagh, e vide il K2 dalla valle di Shaksgam, in Cina. Scrisse di “un cono quasi perfetto, incredibilmente alto”.

Younghusband si innamorò del K2. E qualcosa del genere accadde a lei, nell’estate del 1929?

Diciamo pure che è andata così. E infatti, per il 1939 c’era una mia spedizione pronta a partire. Però è arrivata la guerra ed è andato a monte tutto.

E la sua fortuna che fine aveva fatto, professore?

Forse in quel momento era un po’ esaurita, mi aveva dato una mano nel 1933 sui Monti Zagros, in Iran. Stavamo facendo dei rilievi dall’aereo, e si è rotta un’elica durante il volo. Non so come, siamo riusciti ad atterrare. Ma dopo la guerra, la mia fortuna con il K2 è tornata.

Prima di tornare alla seconda montagna della Terra, mi può dire qualcosa delle sue spedizioni nel Sahara? Secondo me Sulle vie della sete è il suo libro più bello.

La ringrazio. Dal 1930, i deserti della Libia hanno occupato una bella fetta della mia vita. Il primo anno ho viaggiato in Cirenaica, nel 1931 ho attraversato il deserto con una carovana di cammelli. Nel 1938, nel pozzo di Mellaha, ho estratto il primo barile di petrolio del Sahara. Ho proposto a Italo Balbo, il governatore della colonia, di organizzare l’estrazione. E lui mi ha risposto di no.

Però due anni prima Balbo, che era stato suo commilitone nella Grande Guerra, l’aveva spedita con una squadriglia di aerei nel Tibesti, a far sventolare il tricolore sul confine meridionale della Libia.

E’ vero, e sul confine con il Ciad abbiamo incontrato i militari francesi. I tempi erano quelli che erano, l’elemento politico c’era, ma è stata una grande avventura. Un giudizio che vale anche per le mie due missioni geologico-minerarie in Etiopia, fra il Nilo Bianco e il Nilo Azzurro. Abbiamo trovato giacimenti di oro, molibdenite e mica, e siamo stati attaccati dagli shifta, i ribelli. Alcuni componenti della comitiva sono stati uccisi.

Torniamo al K2 professore. Era così difficile ottenere il permesso?

Era difficile, sì. L’avevano ottenuto gli americani nel 1953, per la seconda spedizione diretta da Charles Houston. Per l’anno dopo c’erano cinque paesi in lizza, e pareva la dovessero spuntare i francesi o i tedeschi. Ma io avevo due ottimi amici, che si sono rivelati decisivi. Il barone Giovanni Scola Camerini, capo di gabinetto di De Gasperi. E Paolo Canali, che dello stesso De Gasperi era stato il segretario.

E così la spedizione “Italia K2” è diventata una questione di governo?

In parte sì. De Gasperi era stato “indottrinato” a dovere, e quando passò per Roma Mohammed Ali Bogra, il primo ministro pakistano, gli chiese direttamente il permesso. Qualche mese dopo arrivò il telegramma. Potevamo partire.

I problemi sono iniziati in quel momento?

Se si riferisce ai fondi, erano iniziati già prima. Alcuni dei materiali necessari dovevano essere ordinati con grande anticipo, e i soldi ho dovuto tirarli fuori io. Altri fondi mi sono stati prestati degli amici. Il CONI e il CNR, che aveva ricevuto un finanziamento straordinario dedicato alla spedizione, hanno preso la decisione finale all’ultimo minuto.

Quanto era il bilancio totale, professore?

Quasi 110 milioni di lire, tanti soldi per quei tempi. Abbiamo ricevuto 20 milioni dal CONI, 24 milioni dal CNR, 2 milioni e mezzo dall’IGM, 45 milioni da sponsor privati, banche ed enti vari. Poi 12 milioni di diritti d’autore sui libri della spedizione (soldi intestati a me, che ho ceduto di buon grado), e quasi 2 milioni di diritti sulle fotografie. Infine 4 milioni o poco più da parte di diverse sezioni del CAI.

E il CAI centrale?

Nulla, proprio nulla.

Davvero?

Guardi, è una questione spinosa, non vorrei parlarne.

D’accordo professore. E dei problemi sulla scelta dei componenti della spedizione mi può dire qualcosa?

Sì. Ha una domanda precisa?

Riccardo Cassin, prima di tutto. Era venuto con lei l’anno prima al campo-base, poi è stato scartato nella selezione. C’è chi ha parlato di complotto ai suoi danni, qualcuno ha scritto che “Desio non avrebbe mai tollerato nella spedizione un altro possibile leader, che era anche un alpinista infinitamente più forte di lui”.

Guardi, la verità è semplice ed è ben diversa. Nella spedizione di Houston, la malattia di Art Gilkey aveva avuto delle conseguenze funeste. Per la morte di Gilkey, ovviamente, e perché aveva scombussolato la spedizione. Non potevo fare altro che sottoporre gli uomini a degli esami medici molto seri, e comportarmi secondo il loro responso.

Egli esami hanno scartato Cassin?

Sì, e con lui altri alpinisti molto noti. Gli esami sono stati condotti dall’Istituto di Fisiologia di Milano, poi siamo andati a Torino alla camera di decompressione. Ma lei crede davvero che io abbia potuto manipolare quei risultati?

Secondo i test, professore, chi era il più forte di tutti?

Mario Puchoz. Non le sembra una tragica ironia della sorte?

Gli esami fisiologici sono stati il solo criterio di scelta?

No. Nel campo sperimentale al Piccolo Cervino, nell’inverno precedente la partenza, abbiamo sottoposto i candidati a un test completo. Contava la resistenza fisica, ovviamente. Ma anche la capacità organizzativa (a turno, i candidati erano responsabili del campo), e le doti psicologiche. Sono stati sottoposti ad un test completo anche da questo punto di vista.

Condotto da scienziati?

No, dal capitano degli alpini che faceva da osservatore al campeggio.

Tra gli esclusi, professore, quali altri nomi mi può fare?

Cesare Maestri, Carlo Mauri, Piero Ghiglione, Arturo Ottoz.

Facciamo un salto nel tempo e nello spazio, arriviamo ai giorni della vetta. Che giorno è stato per lei quel fatidico 31 luglio?

Un giorno di ansia, di incertezza. Non sapevamo nulla, e non siamo riusciti a sapere nulla nemmeno il giorno dopo. Le radio non funzionavano, e bisognava aspettare il rientro di tutti gli alpinisti al campo-base. Abbiamo saputo della vittoria la sera del 2 agosto, quando sono scesi Lacedelli e Compagnoni.

E siete venuti a sapere anche della vicenda di Mahdi e Bonatti?

Certamente, se lei si riferisce al bivacco forzato e ai congelamenti di Mahdi. Ma anche su questa faccenda le polemiche sono venute fuori solo dopo il ritorno in Italia. Parecchio dopo. Al campo-base, la sera del 2 agosto, c’era soltanto una grande gioia.

E come spiega le voci, le versioni differenti e le critiche che sono venute fuori dopo?

Non lo so, bisognerebbe chiedere a chi le ha messe in giro. Nei giorni successivi alla vittoria ho personalmente interrogato Compagnoni, Lacedelli e tutti gli altri. Ciò che ho scritto nel volume ufficiale è la pura verità.

Tutta la verità, professore?

Senza il minimo dubbio.

Milano, 1984

Pubblicata sulla “Rivista della Montagna” e su “Alisei”

Qualche anno dopo questa intervista, mentre si sta avvicinando ai novant’anni, Ardito Desio torna agli onori delle cronache. L’idea che la quota del K2 possa essere vicina a quella dell’Everest rinnova di colpo il suo l’interesse per le montagne dell’Asia. Nonostante l’età, il capo della spedizione del 1954 si mette in moto.

Incontra i governanti del Pakistan, a Pechino viene fotografato mentre stringe la mano a Deng Xiao Ping. Promuove spedizioni scientifiche per effettuare nuove misurazioni, mette la sua autorevole firma al progetto della Piramide, il laboratorio scientifico italiano che dovrebbe sorgere in Tibet. E invece, dopo il massacro del 1989 in Piazza Tienanmen, viene installato ai piedi del versante nepalese dell’Everest.

Dopo l’intervista che avete appena letto ho avuto il piacere di incontrare Ardito Desio altre volte, scoprendo un uomo dai due volti. Sulle questioni che riguardano la spedizione al K2 (la scelta dei partecipanti, il terribile bivacco di Bonatti e di Mahdi) il professore non si scosta di un millimetro dalle posizioni ufficiali.

Quando invece gli chiedo degli altri suoi viaggi negli angoli più selvaggi del pianeta sorride, racconta particolari e aneddoti, si diverte, mostra un volto ben diverso da quello del “terribile Desio” del 1954. Il geologo del K2 si spegne a Roma nel 2001, alla bella età di 104 anni.

Nei decenni successivi sono venute alla luce altre cose, e le carte che ho consultato al Museo Nazionale della Montagna di Torino sulla questione dei fondo per la spedizione del 1954 raccontano una storia diversa da quella che mi ha raccontato il professore in quella lontana giornata milanese. E’ una storia che racconto in “K2. La montagna del mito” che è stato appena pubblicato da Solferino. Ma Desio resta, e resterà per sempre, un’icona della scienza e dell’esplorazione italiana nel mondo.