Qualche mese fa, gli amici di “Giovane Montagna”, una storica e attiva associazione di escursionisti e alpinisti diffusa in ogni parte d’Italia, mi hanno chiesto di intervenire sul loro bollettino con un articolo sui Parchi italiani e le regole, non sempre sensate, imposte ai loro visitatori. Il testo è uscito sull’ultimo numero del 2022. Eccolo.
Nel cuore dell’Appennino, tra Lazio e Abruzzo, le aree protette non amano i loro frequentatori più assidui. Da anni escursionisti, arrampicatori sportivi, alpinisti, appassionati delle discipline invernali come lo scialpinismo e le ciaspole si trovano davanti a divieti sempre più severi. Alcuni di questi provvedimenti sono giusti, altri hanno motivazioni fragili. In qualche caso si tratta di regole bizzarre, che sulle Alpi e nel resto del mondo non ci sono.
Per capire questa realtà, dalle case di Cartore, nel Reatino, basta raggiungere l’imbocco della Val di Teve. E’ un solco lungo e spettacolare, che separa il Monte Velino, 2487 metri, dalla parete del Muro Lungo, che è stata salita per la prima volta sessant’anni fa da Walter Bonatti e Gigi Panei. Entrambi erano guide di Courmayeur, ma Gigi era nato a pochi chilometri da lì.
Da due anni, all’entrata della Val di Teve, un cartello dei Carabinieri Forestali che gestiscono la Riserva Naturale Monte Velino avverte che il divieto d’accesso alla Valle, una volta in vigore da novembre a maggio, è stato esteso a ottobre, che qui è meraviglioso grazie ai colori dei faggi autunnali.
Le multe per i trasgressori, spiega il cartello, vanno da 25,82 fino a 12.500 euro, e nei casi più gravi c’è la reclusione fino a 32 mesi. Com’è logico pensare (ma sul cartello non c’è scritto), le pene più dure non riguardano gli escursionisti, ma i responsabili di scempi come l’apertura di cave abusive, o lo sversamento di rifiuti tossici. Ricordarle in questo modo può avere soltanto uno scopo. Intimidire chi legge.
Anche il perché del divieto (“per motivi di sicurezza” recita il cartello) merita una spiegazione. La chiusura stagionale della Val di Teve, disposta dopo l’istituzione della Riserva nel 1987, doveva servire a tutelare l’avvoltoio grifone, appena reintrodotto dall’allora Corpo Forestale dello Stato.
I grifoni hanno installato i loro nidi a centinaia di metri dal fondovalle, lontano dal potenziale disturbo. Poi hanno iniziato a frequentare anche delle pareti più basse, assolate e vicine ai paesi, e il divieto, nato per tutelare la fauna, è stato motivato con la necessità di tutelare gli escursionisti dalle frane. Queste però in Val di Teve, come altrove, possono cadere tutto l’anno. Ottobre non è più pericoloso di settembre o di agosto. L’idea della Riserva, che il Comune di Magliano de’ Marsi ha appoggiato, sembra essere semplicemente stata di chiudere la montagna il più possibile.
Val Majelama e Rigopiano: tragedie dolorose e divieti sbagliati
La Val Majelama, a est della cima del Velino e della Val di Teve, ha visto un’altra vicenda emblematica. Due inverni fa, il 24 gennaio 2021, quattro escursionisti di Avezzano si sono inoltrati nel solco nonostante i pendii del Monte Cafornia fossero carichi di neve instabile. Si è staccata una valanga gigantesca, e i quattro sono stati travolti e uccisi. La ricerca dei corpi, durata più di un mese, ha commosso l’Abruzzo e l’Italia.
Qualche mese dopo, sempre con la motivazione della sicurezza, la Riserva ha disposto la chiusura della Val Majelama, ogni anno, da novembre a aprile. Stavolta, però, la protesta del CAI, delle guide alpine e di parte della stampa, e soprattutto il no del Comune di Massa d’Albe, hanno portato al ritiro del provvedimento.
D’altronde, se si dovessero chiudere d’inverno tutte le valli potenzialmente valangose, e tutto l’anno quelle esposte alle frane, l’Appennino e le Alpi dovrebbero essere quasi totalmente vietati. E’ lecito pensare che i responsabili della Riserva del Velino volessero (e forse vogliano ancora) creare un’area protetta integrale. Un’idea legittima, ma che non può essere realizzato a colpi di decreti. Bisogna presentare un progetto, motivarlo, farlo approvare dallo Stato, dalla Regione e dai Comuni.
Il caso della Riserva del Velino non è solo. Il 18 gennaio 2017, dopo nevicate eccezionali, una valanga caduta dalle pendici orientali del Gran Sasso ha investito l’Hotel Rigopiano, in territorio di Farindola, uccidendo 29 persone. Anche questa sciagura, grazie ai media, ha commosso l’Italia. Il processo sulle responsabilità della tragedia è in corso di svolgimento, e non mi soffermerò su questo punto.
Vale la pena di ricordare, però, che nei mesi successivi alla tragedia, molti Comuni del Gran Sasso hanno vietato l’accesso alla montagna innevata, anche sull’altopiano di Campo Imperatore, e anche quando i bollettini del Meteomont parlavano di rischio trascurabile. Dopo la valanga di Rigopiano, sono bastate delle nevicate modeste per spingere vari Comuni abruzzesi (tra loro Scanno, Ovindoli Roccaraso ma anche il capoluogo L’Aquila) a vietare ogni attività dallo scialpinismo alle ciaspole, fuori dalle piste battute.
I divieti hanno interessato anche altopiani sicuri, hanno allontanato ciaspolatori e freerider, hanno dato un inutile colpo all’economia dei borghi. Le proteste delle guide alpine, del CAI, dell’attivissima associazione Abruzzo Freeride Freedom non sono servite a nulla. Chi ama la neve fresca, nei rari casi in cui arriva, se la deve andare a cercare più a nord.
Come tutelare il falco pellegrino e i suoi nidi?
I casi da raccontare sono molti, ma non voglio fare un elenco noioso. Il Parco Nazionale del Circeo, nel 2022, ha deciso di vietare completamente l’arrampicata sul Precipizio, la parete calcarea più selvaggia e solitaria del Lazio, che è alta duecento metri e larga un chilometro, e che ospita delle vie di grande bellezza e di grande interesse storico.
In altre zone, come la vicina Montagna Spaccata di Gaeta, i tecnici del Parco della Riviera di Ulisse e le scuole di alpinismo del CAI si sono confrontati e hanno deciso di chiudere tratti limitati di parete. Lo stesso, molti chilometri più a nord, si fa all’inizio di ogni inverno in Valnontey, nel Parco del Gran Paradiso, per decidere quali cascate di ghiaccio interdire per non disturbare il gipeto. Al Circeo, invece, il divieto è stato assoluto e totale.
Spesso, sull’Appennino, sembra che le aree protette italiane accettino solo l’escursionismo tranquillo, quello dei sentieri-natura e delle scuole. Chi si avventura su percorsi lunghi e impegnativi viene guardato con sospetto, chi pratica l’arrampicata o lo scialpinismo viene rincorso e multato.
Alla fine dello scorso inverno, il Parco d’Abruzzo, Lazio e Molise ha iniziato a consultare sistematicamente Facebook, e ha multato a distanza gli alpinisti che avevano salito le vie invernali del Monte Marsicano, all’interno della Riserva integrale. Se lo avessero fatto disturbando orsi o camosci, le multe sarebbero state sacrosante. Ma d’inverno, su quelle balze incrostate di neve e ghiaccio, gli animali non vanno.
E’ impossibile, per un’area protetta moderna, capire che l’uso del territorio innevato è diverso da quello estivo, sia per i frequentatori sportivi sia per la fauna protetta? E’ impossibile pensare a dei regolamenti di fruizione diversi a seconda delle stagioni? Mi permetto, per qualche riga, di parlare in prima persona.
Quarant’anni fa, insieme a un gruppo di alpinisti molto forti, ho proposto ai frequentatori del verticale di rispettare la nidificazione del falco pellegrino e altre specie, rinunciando a frequentare le pareti scelte da questi preziosi pennuti.
Più volte in quegli anni, nel Lazio, in Sicilia e altrove, le denunce degli arrampicatori hanno consentito alle forze dell’ordine di bloccare i delinquenti (di solito austriaci e tedeschi) che avevano rubato uova di pellegrino in parete. I nidiacei sarebbero stati venduti in Arabia, dove la caccia con il falco continua ad andare di moda.
In quegli anni, tra il Gran Sasso, i Monti della Laga e i Sibillini, la mobilitazione di escursionisti e alpinisti ha portato al blocco dei progetti di nuovi impianti sciistici, e alla nascita dei nuovi Parchi. Negli incontri dedicati alle pareti e ai falchi, come sulle testate specializzate, la risposta di arrampicatori e alpinisti è stata di assoluta disponibilità. Invece un dirigente dell’ex-Corpo Forestale, dopo aver dialogato con noi, ha tentato di far passare nel Lazio una legge per vietare sempre e dovunque l’arrampicata su roccia, equiparata di fatto allo spaccio di droga o a qualunque altro reato.
Oggi il quadro è cambiato, molte specie come il lupo e il camoscio appenninico non rischiano più l’estinzione. Credo che la disponibilità di escursionisti, arrampicatori e scialpinisti di fare un passo indietro per rispettare la natura debba rimanere, e dov’è necessario rafforzarsi. Da parte loro, però, i Parchi e le aree protette dovrebbero usare i divieti solo come soluzione estrema, e solo se motivati e spiegati. Invece sull’Appennino le cose vanno in modo diverso. E una parte della motivazione è evidente.
Un centenario sprecato, una legge a cui manca un pezzo
Nello scorso aprile, alla presenza del presidente Sergio Mattarella, sono iniziati i festeggiamenti per i primi cento anni dei Parchi d’Abruzzo, Lazio e Molise e Gran Paradiso. Un’altra cerimonia, a settembre, si è tenuta a Pescasseroli.
Dall’altra parte dell’Atlantico, a maggio, è stato celebrato un altro anniversario importante. Nel 1872, centocinquanta anni fa, Ulysses Grant, generale diventato presidente degli USA, firmò la legge che stabiliva la tutela di Yellowstone, il primo Parco nazionale del mondo. Una decisione presa a Washington, che riguardava foreste, geyser e animali del West americano, ma che ha cambiato il mondo.
La legge firmata da Grant, due paginette che si trovano facilmente online, stabiliva di trasformare quella “zona tra i territori del Montana e del Wyoming, alle sorgenti del fiume Yellowstone” in un “parco pubblico per il benessere e il piacere del popolo”. Tenete a mente l’ultima frase, per favore.
Nella legge-quadro sulle aree protette italiane, approvata dalle Camere nel 1991 dopo una discussione durata decenni, si parla di molte cose sacrosante, ma “il benessere e il piacere del popolo” non ci sono. Non va bene, non è giusto.
I Parchi e le Riserve naturali servono a tutelare il paesaggio, a proteggere e incrementare la biodiversità, ma anche a consentire agli umani di scoprire la natura, e di emozionarsi grazie a lei. Se la legge sulle nostre aree protette fosse emendata per inserire quelle sette parole (nove in inglese, “for the benefit and the enjoyment of the people”), per norme discutibili come quelle del Velino e del Circeo ci sarebbe meno spazio.
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