Quando si parla di italiani sull’Everest, il pensiero va alle imprese di Simone Moro e Reinhold Messner, o alle tante missioni scientifiche che hanno lavorato alla Piramide, il laboratorio che sorge a 5000 metri di quota, non lontano dal sentiero per il campo-base nepalese. Invece, come ci ricorda il bollino che i 300.000 soci del CAI incolleranno sulla tessera per il 2023, una spedizione italiana ha raggiunto la cima nel 1973, esattamente cinquant’anni fa.
E’ una storia che inizia a Cervinia nel novembre del 1972, quando 63 alpinisti, ricercatori e militari (ben 53 membri del gruppo indossano la divisa) si incontrano per preparare la prima ascensione tricolore alla vetta più alta della Terra. Il progetto va avanti, ha successo, ma poi verrà menzionato di rado. Il suo ricordo, soprattutto tra gli alpinisti anglosassoni, verrà macchiato da un’ombra.
Nel 1973 sono passati vent’anni dall’ascensione di Hillary e Tenzing, e l’alpinismo sull’Everest ha iniziato a fare un grande balzo in avanti. Nel 1971 è stata tentata per la prima volta la parete Sud-ovest, che verrà vinta da Chris Bonington e compagni quattro anni più tardi. Nel 1975 la cinese Junko Tabei e la tibetana Phantog, con due spedizioni diverse, saranno le prime due donne sulla cima. Nel 1978 Reinhold Messner e Peter Habeler raggiungeranno la vetta senza respiratori e bombole. Nel 1980 arriverà l’invernale dei polacchi.
Duemila portatori, duecento yak, due elicotteri
La spedizione tricolore del 1973, che il 5 e il 7 maggio porta a 8848 metri cinque alpinisti italiani e tre nepalesi (uno di loro, Syambu Tamang, è il primo non di etnia Sherpa a raggiungere la cima), è una spedizione tradizionale e pesante, con 63 partecipanti italiani e 80 Sherpa d’alta quota. Per portare i carichi da Lukla al campo-base lavorano 2.000 portatori e oltre 200 yak.
Ma il problema di immagine della spedizione non deriva da questi numeri. Oltre a uomini, viveri e materiale, i C-130 Hercules dell’Aeronautica Militare che decollano dall’aeroporto di Cameri portano in Nepal due elicotteri Agusta Bell 205, che vengono usati per trasportare materiali, e in due casi per evacuare degli alpinisti malati.
Uno dei due, pilotato dal sergente maggiore Nicola Paludi, stabilisce un record mondiale atterrando a 6400 metri di quota. Qualche giorno dopo, senza danni al pilota, l’elicottero si schianta e viene abbandonato sul ghiacciaio.
Edmund Hillary, protagonista della prima ascensione del “Big E”, in quei giorni è nel Khumbu, e commenta che “si tratta di un’esercitazione militare” che “non ha nulla a che fare con l’alpinismo”. Il capospedizione Guido Monzino risponde insultando il conquistatore dell’Everest, una notizia che fa il giro del mondo. Le scuse ufficiali italiane arriveranno solo qualche decennio più tardi.
Il supporto di Guido Monzino
Insieme alla spedizione del 1973 all’Everest, merita di essere ricordato Guido Monzino, un ricco imprenditore milanese, patron dei grandi magazzini Standa, che ha un ruolo nella storia dell’alpinismo italiano perché organizza e finanzia ben ventuno spedizioni (quella sull’Everest è l’ultima) in Patagonia, nel Karakorum, in Africa, in Groenlandia e nell’Artico. Mario Fossati, nel necrologio di Monzino che firma nel 1988 su Repubblica, lo definisce “milanese fino al midollo delle ossa”, “capace di affermare che la sola forma di riposo è il lavoro”.
Claudio Smiraglia e Guglielmina Diolaiuti, che scrivono di Monzino sul “Dizionario degli Italiani” edito da Treccani, raccontano “un uomo che rincorre mete sempre più lontane, animato non solo da uno spirito romantico di avventura e di conoscenza, ma anche dal desiderio di riportare l’Italia ai vertici dell’esplorazione”.
Guido Monzino scopre la montagna tardi, salendo il Cervino con una guida d’eccezione come Achille Compagnoni, il primo salitore del K2. Da allora, sempre secondo il “Dizionario”, il suo “principale scopo di vita divenne inserirsi nel filone delle grandi spedizioni esplorative”. Il suo “modello ideale”, ovviamente, è il Duca degli Abruzzi.
La spedizione sparita (o quasi)
Non è facile documentarsi sulla spedizione del 1973. L’elegante volume ufficiale che la celebra ormai si trova solo nelle librerie antiquarie. I partecipanti, quasi tutti militari, negli anni scrivono poco o nulla. L’unico a farlo, qualche anno dopo, sarà Massimo Cappon, giornalista, fotografo e documentarista italiano che partecipa alla spedizione come alpino di leva. I suoi scritti, però, oggi non sono facili da trovare. Chiunque invece, grazie a You Tube, può vedere il documentario “Everest ’73”, curato da Gianfranco Ialongo per la Sede RAI della Valle d’Aosta nel 2013, a quarant’anni dalla salita.
Alle immagini girate durante la spedizione, Ialongo affianca le interviste con due ufficiali, i generali Roberto Stella e Alessandro Molinari, che nel 1973 erano entrambi capitani, e con tre dei cinque alpinisti (Rinaldo Carrel, Virginio Epis e Claudio Benedetti) che sono arrivati sulla cima.
Le polemiche sugli elicotteri entrano di sfuggita nel racconto. Il documentario inizia spiegando che Monzino, non avendo trovato l’appoggio di nessun ente civile “offre l’Everest ai giovani di tutte le scuole militari italiane, e in particolare alla Scuola Militare Alpina di Aosta”.
La preparazione del materiale
Si prosegue raccontando la preparazione del materiale, la selezione dei partecipanti, e la scelta di collaborare con l’Istituto di Fisiologia d’Alta Quota dell’Università di Milano e con il professor Paolo Cerretelli, che va in Nepal con alcuni assistenti. C’è lo sciopero dei 2.000 portatori, che viene aggirato inviando gli elicotteri a cercare dei sostituti nelle altre valli del Khumbu.
Il pathos, com’è ovvio, si concentra nei giorni della vetta. Rinaldo Carrel, guida di Valtournenche che nel 1973 ha soltanto 21 anni, racconta la bufera che lo blocca insieme a Minuzzo, Lhakpa e Syambu al Colle Sud per tre giorni e tre notti, e poi la salita alla vetta per una cresta stracarica di neve.
Virginio Epis, all’epoca maresciallo istruttore della Scuola Militare Alpina, racconta la difficoltà di superare l’Hillary Step in arrampicata, perché allora le corde fisse non c’erano. Claudio Benedetti, suo compagno di ascensione e collega, racconta di aver saputo di essere stato inserito nella seconda squadra per la vetta quando era sulla parete del Lhotse, e di aver corso per raggiungere Epis, Benedetti, il capitano Innamorati e Sonam Gyalchhen Sherpa.
“Potevamo salire in 20 o in 25”
Il generale Molinari racconta di essersi commosso per aver accompagnato Monzino in una visita al re Birendra del Nepal. Il suo parigrado Stella sostiene che è stato un errore chiudere la spedizione dopo il secondo successo, perché “saremmo potuti arrivare in cima in 20 o in 25, e saremmo entrati nella storia”.
Il 5 maggio, quando la prima cordata arriva sulla cima dell’Everest, il ghiacciaio del Khumbu è nascosto dalle nuvole, e nel panorama spicca il Makalu “a portata di mano e meraviglioso”, come ricorda commosso Carrel. Il 7, quando tocca alla seconda squadra, il tempo è incerto, e dopo qualche foto Epis invita gli altri a ripartire senza perdere tempo.
Sull’Hillary Step Benedetti esaurisce l’ossigeno, si blocca, e Virginio Epis lo salva passandogli per un momento il suo boccaglio. Il ritorno verso Lukla e Kathmandu non ha storia.
Conclude il documentario curato da Ialongo qualche fotografia in bianco e nero degli alpinisti che vengono ricevuti al Quirinale dal presidente Giovanni Leone e in Vaticano da Papa Paolo VI, e partecipano il 2 giugno alla sfilata sui Fori Imperiali di Roma. Immagini che oggi possono sembrare antiche. Ma il documentario è interessante anche per questo.
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