Ogni anno, qualche escursionista che sale sul Monte Petroso, vietatissimo dai regolamenti del Parco, viene beccato dai guardiaparco e dice “l’ho letto su una guida di Stefano Ardito”.
E’ una ridicola balla, perché il Petroso c’era solo in una mia guida del 1981. Mi sembra un divieto senza senso, ma siamo nel cuore dell’area protetta. Su quella cima, dove mi dicono che esistono un grande ometto e una croce, non vado da più di trent’anni. Per lo stesso motivo, non salgo (e non descrivo nelle guide) cime vicine e altrettanto preziose come il Balzo della Chiesa, lo Jamiccio, lo Sterpidalto e il Capraro, e nemmeno i satelliti del Marsicano.
In altri casi, lo confesso in pubblico da anni, i divieti mi sembrano insensati. Sui monti San Nicola, Argatone e Marcolano, gli itinerari del Parco (fuori dei quali teoricamente non si può andare) si fermano a pochi minuti dalla vetta. Su altre cime teoricamente stravietate, come il Forcellone e il Turchio, si incontrano croci e libri per le firme. Perché, dalla sella che lo separa dall’Altare, scavalcata da un sentiero ufficiale, non si può raggiungere la bella vetta del Tartaro? Perché il Parco ignora i sentieri di Scanno e di Villalago, finanziati dall’Unione Europea ed elencati sui siti dei Comuni? Perché su almeno uno di questi, dalle parti del Ferroio, i paletti dei cartelli sono stati tagliati con la motosega?
Affronto questi problemi da decenni, e tre anni fa mi è stato chiesto di parlarne a uno degli incontri del Club 2000m.
Mi capita di avere opinioni diverse da quelle degli amici escursionisti con cui parlo, sui sentieri o in città. Ma discutere è il sale della vita.
Perché, nemmeno una volta in trent’anni, qualche responsabile delle aree protette dell’Appennino (poco importa se presidente, direttore o responsabile del servizio scientifico) si è degnato di rispondere a quel che scrivo? Resto in attesa, ma senza troppe speranze, di un confronto.